Due capre e un prete belga hanno portato il formaggio in Corea del Sud

2022-10-02 12:00:58 By : Mr. Allen Bao

Secondo giorno a Seoul, ore 21. In Corea del Sud cenare dopo le venti e trenta è una piccola impresa. Quella è, quasi ovunque, l’ora del lastòudo, traslitterazione di last order, l’ultima soglia per l’ordinazione di una portata all’interno di un ristorante. Molte parole del coreano sono mutuate, in maniera più o meno pedissequa, dall’inglese parlato dagli americani con cui la popolazione entrò in contatto durante la guerra del 1950-1953. Questo non aggiunge nulla al succo del racconto, fermo al perentorio lastoùdo generale così simile a un coprifuoco.  Dopo quell’ora, si può mangiare qualcosa nei pub, nei fast food (ma ancora per pochi minuti), o in qualche sporadico ristorante che non chiude mai, come in un quadro di Hopper. Non è nemmeno questo il focus, il fatto è che uno dei pochi posti aperti nei paraggi era una famosa catena di Dakgalbi, una specie di spezzatino salsato di pollo piccante, e che tutti i generosi piatti da portata proposti prevedevano una specie di canaletto intorno, come il fossato di una fortezza medievale, pieno di formaggio fuso e incandescente. Tutti quanti.

Trovare formaggio in qualsiasi luogo più ad est dell’Uzbekistan è un evento raro, trovarlo sciolto come se fosse mozzarella in panetti, apparentemente, impossibile. Tranne in Corea del Sud. Qui il formaggio sciolto sta sul pollo, sugli gnocchi di riso (tteokbokki), nei gusci del granchio al mais, sui gamberi flambé, in cima alle zuppe di noodles piccanti, perfino dentro alle cotolette di maiale, altrimenti in tutto e per tutto uguali a quelle preparate in Giappone.

Tutto questo in una zona del mondo, l’Asia orientale, dove la percentuale di individui intolleranti al lattosio è spesso superiore al 90 per cento della popolazione. Il fatto è che in Corea, nel 1964, è arrivato un prete olandese.

Padre Didier t’Serstevens era un sacerdote belga , e quando venne assegnato alla chiesa di Imsil aveva 33 anni. La provincia del Jeolla settentrionale veniva descritta come una regione povera, priva di una vera e propria produzione alimentare, con una rete infrastrutturale carente e, soprattutto, usciva come il resto del paese da una guerra devastante.

Quando a padre Didier vennero regalate due capre da un collega, il giovane prevosto pensò subito a un modo per metterle a frutto. L’orografia del luogo, una foresta montana più verde dello smeraldo, gli sembrò naturalmente adatta all’allevamento caprino, ma che fare del latte?

Quello di capra è intenso e pungente, il mercato non lo assorbiva, e le rimanenze superavano sempre di gran lunga la piccola produzione, nel frattempo estesa a pochi altri allevatori locali. «Mentre riflettevo su cosa fare con tutto quel latte avanzato, improvvisamente m’è balenato in testa il formaggio. Per fare latte condensato, o in polvere, servivano grossi macchinari, mentre in Europa la gente il formaggio se lo produce anche in casa».

L’operosa ingenuità di padre Ji Jeong-hwan, come lo ribattezzarono i locali, si scontrò presto con un imprevedibile ostacolo: nessuno aveva la più pallida idea di come si producesse il formaggio.

Lui per primo. «Eravamo amatori, usavamo piccole reti normalmente usate per filtrare erbe medicinali e acciughe. Aveva l’aspetto del formaggio, ma la qualità non era abbastanza buona per metterlo in vendita. I miei genitori mi donarono duemila dollari per costruire un laboratorio dove poter far fermentare il latte. Ma poi scoprimmo che avremmo avuto bisogno di batteri lattici, provammo con il lievito e fallimmo. Sono passati tre anni senza nessun risultato, e un numero crescente di contadini abbandonò il progetto», ha dichiarato in una delle sue ultime interviste.

Nell’anno della sua morte, il 2019, la produzione di formaggio creava alla piccola città di Imsil un giro d’affari di di 24 milioni di dollari. Imsil Cheese produce principalmente formaggi a pasta filata, qualche stagionati, yogurt e formaggette aromatizzate, come quella ai lamponi.

Una celebre catena di pizzerie locali si fregia di utilizzare esclusivamente “formaggio di Imsil”, e diversi locali di gogigui (carne grigliata al tavolo) ne servono un pezzetto da abbrustolire sul fuoco dopo le portate principali. Cos’è successo nel frattempo?

Nel 1966, sull’orlo del fallimento, padre Didier decise di recarsi in Francia con un’idea molto semplice: imparare a fare il formaggio. Studiò presso i migliori casari, apprese tecniche e tecnologie, ma «il momento cruciale fu quando riuscii a mettere le mani sugli appunti di un esperto italiano. C’era scritto tutto lo scibile sulla produzione del formaggio».

Al ritorno in Corea, al tramonto degli anni Sessanta, la produzione del formaggio coreano era ufficialmente cominciata, anche grazie all’integrazione del più produttivo e vendibile latte vaccino. Ma, parafrasando (forse) Massimo D’Azeglio, «abbiamo fatto il formaggio: ora dobbiamo fare chi lo compra».

Dovettero attendere fino al 1985, quando in Corea sbarcò Pizza Hut e con esso l’immaginario seducente legato a quel formaggio filante che ricopriva in quantità oltraggiose le prime pizze di cui i coreani avessero disponibilità.

Da lì, la metaforica inondazione di formaggio sciolto arrivò a lambire i territori più tradizionali, plasmando di fatto una parte della cucina coreana, per quanto ancora come un accessorio (non c’è piatto col formaggio che non possa escluderlo senza problemi). E padre Didier? Non si può dire che non abbia vissuto una vita ricca di soddisfazioni.

Nel 2004 a Imsil ha inaugurato l’enorme Cheese Theme Park, un parco divertimenti da 130mila metri quadri totalmente incentrato sul formaggio. Ogni anno, 200mila persone imparano qui a fare il formaggio con le proprie mani, osservando i propri figli cavalcare mucche meccaniche dall’alto di una terrazza panoramica a forma di Emmenthal.

Ora il padre del formaggio coreano riposa, da coreano (ha ricevuto la cittadinanza nel 2016, 53 anni dopo il suo arrivo), in un cimitero di Jeonju. Al suo funerale hanno partecipato più di mille persone, almeno 998 in più di quelle prime due capre. Ed io, mentre scrivo queste ultime righe, mi sto ancora ripulendo la barba dagli ultimi filamenti dell’elastico formaggio di Imsil che ricopriva la mia pizza. Devo dire niente male.

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